Hanno grande fascino, per le sorprendenti e meravigliose suggestioni di luce che producono. Vengono prodotti per la mancanza di colori particolari in natura, oppure per creare superfici brillanti e resistenti all’acqua. Possono essere utilizzati per mosaici prevalentemente parietali, data la scarsa resistenza all’usura che li rende fortemente deperibili se sottoposti a calpestio. L’unica eccezione è costituita dalle tessere a foglia metallica che possono essere impiegate anche nella pavimentazione.
Mosaico nella Basilica di San Vitale a Ravenna
Specialmente in Egitto, erano associati alla lavorazione delle perle, colorate in verde e turchese. A Roma, solo sotto Augusto la fabbricazione di smalti ha notevoli proporzioni: ad Aquileia si trova un èmblema della Nereide su toro marino, costituito da smalti verdi e azzurri per ottenere gli effetti di trasparenza e rifrazione dell’acqua.
Nel XII secolo il monaco Teofilo descrive diverse specie di vetro colorato, opaco come il marmo.
Nel 1203, Venezia chiama i maestri vetrai di Costantinopoli e dà inizio alle fabbriche veneziane del vetro. La produzione di tessere musive vitree e metalliche a Venezia scompare verso la metà del XIII secolo e viene reintrodotta da Lorenzo Radi nell’Ottocento, con la riscoperta di segreti perduti, la sperimentazione di nuovi materiali e l’introduzione della lavorazione del mosaico a rovescio. Angelo Orsoni contribuisce alle innovazioni con l’introduzione del riscaldamento a carbone e del rullo per pressare il vetro. Gli esperimenti con materiali nuovi danno origine però a smalti poco resistenti: a San Marco i mosaici dell’Ottocento sono più rovinati di quelli antichi.
Madonna, mosaico , fine XI inizio XII esposto nel Museo civico Medioevale di Bologna
Si distinguono diverse tipologie di tessere a matrice vetrosa:
tessere in vetro omogeneo: tessere di colore omogeneo intenso nero, blu, viola, marrone e verde che impedisce la trasparenza e quindi la visione della malta di allettamento sottostante.
tessere in pasta vitrea: tessere di vetro colorato nel quale sono disperse fasi (parti omogenee di un sistema che risultano delimitate da una superficie di separazione fisicamente definita, come ad esempio olio più acqua) cristalline o gassose per ridurne la trasparenza e modificarne la tonalità di colore. Possono essere semitrasparenti o opache; si producono in 4 o 5 toni di colore; le più intensamente colorate sono costituite da vetro trasparente, perché la colorazione impedisce di vedere la malta di fondo, mentre le gradazioni più chiare sono ottenute con la dispersione di un minerale cristallino bianco che aumenta l’opacità, con minor quantità di colorante.
tessere opache: tessere in pasta vitrea nelle quali l’abbondanza di fasi cristalline rende completamente opaco il vetro.
smalti: tessere traslucide e opache più brillanti e luminose in cui l’effetto di lucentezza è dovuto all’ossido di piombo: per questo sono detti anche vetri al piombo. Sono costituiti da una massa vetrosa portante in sospensione una dispersione colloidale di ossidi di vari metalli con funzione colorante, opacizzante e ossidante. Nel XV secolo a Venezia si producono nuovi materiali con colore intenso e maggiore gamma tonale: sono diversi dalle paste vitree per le superfici più brillanti e per la maggior facilità di taglio. La componente fondamentale è la silice, con aggiunta di fondenti per abbassare la temperatura di fusione: in passato si usava, fino al IX – X secolo, il sodio contenuto nel Natron (sesquicarbonato di sodio) proveniente da depositi egiziani; poi ceneri sodiche di piante litoranee, che contengono anche potassio, ma che rendono il vetro facilmente alterabile. Si aggiungono anche stabilizzanti, come ossidi alcalino-terrosi (ossido di calcio e di magnesio) o ossido di piombo, e formatori e modificatori, come ossido di alluminio per la colorazione e la rifrazione, o ferro, rame, cobalto, manganese, antimonio e stagno.
È fondamentale l’aggiunta di ossido di piombo (10-50%) sotto forma di minio o litargirio, per avere maggior brillantezza, facilità di taglio senza scheggiature, superfici più lucide e una maggiore gamma di colori.
La colorazione avviene in due modi:
1. aggiunta di quantità relativamente piccole di ossidi di elementi cromofori: cobalto per il blu, rame per il turchese, oro colloidale per il rosso, manganese per violetto e marrone, ferro per verde chiaro, azzurro e ambra, cromo per giallo e verde, selenio per rosa e rosso.
2. presenza di sistemi colloidali di particelle insolubili, ossia di pigmenti stabili ad alte temperature: questo sistema è però meno stabile e dà risultati di minor qualità.
tessere a foglia metallica: tessere nelle quali una sottile lamina di metallo battuto (oro, argento e loro leghe) è fissata a caldo fra due strati di vetro detti supporto (di qualche millimetro di spessore) e cartellina (di spessore più ridotto, anche inferiore al millimetro, ricopre la foglia metallica per proteggerla da ossidazione o distacco e per aumentarne la lucentezza). Risalgono ai vetri cimiteriali dei primi cristiani, fissati nella calce; la foglia veniva applicata al vetro con resina e protetta con vetro incolore. Teofilo tramanda che in epoca Bizantina la foglia era applicata su vetro, cosparsa di polvere di vetro,quindi rimessa in forno: questo non era possibile perché si formerebbero delle bolle.
A Venezia, nella prima metà del Quattrocento, la foglia veniva applicata a caldo sulla lastra e protetta da vetro soffiato direttamente sopra: questo dava una perfetta aderenza, uno spessore uniforme e il tono di colore voluto. Oggi le foglie hanno spessore di 0,15 µm (=0,15 millesimi di millimetro): 20 g corrispondono a 1 cm³, cioè a 6 m² . Il supporto ha uno spessore di 5–10 mm; su questo si appoggia la foglia, fatta aderire con acqua distillata, e poi la cartellina, di 0,1–1 mm: il tutto viene scaldato nel forno fino al rammollimento dei vetri ma senza raggiungere la temperatura di fusione del metallo (960 °C per l’argento, 1063 °C per l’oro). Si tratta di un procedimento difficile, sia per rendere omogenea la pasta di fondo e la cartellina, sia per l’adesione della foglia durante il riscaldamento: se si usa un adesivo organico (come l’albume) questo si decompone producendo gas. Per fissare chimicamente il metallo al vetro, sul metallo deve formarsi dell’ossido: l’oro e l’argento si ossidano difficilmente, soprattutto l’oro; inoltre la diversa costituzione di metallo e vetro impedisce al vetro di aderire. È necessaria l’assoluta pulizia delle superfici, cosa che in fornace risulta molto difficile. Il raffreddamento, poi, crea tensioni tra metallo e vetro per la diversa contrazione dei materiali, provocando in alcuni casi il distacco della cartellina.
paste vitree filate: dette anche “mosaico filato”, sono costituite da barrette o “teche” ottenute filando il vetro fuso. Nei sec XVI e XVII l’operazione avveniva in fornace: una volta avvenuta la fusione del vetro, questo, anziché essere pressato, veniva colato in cataletti chiamati “trafile”, di dimensioni e sezioni diverse. Le teche venivano quindi ricotte e temperate. Dal XIX secolo si preferisce invece la fusione alla fiamma: al posto dello smalto si utilizzano le “madritinte”, ovvero paste vitree con un’alta densità di ossidi coloranti. Per ottenere il colore desiderato, si pongono più madritinte, a piccoli pezzi, in un crogiolo, che vengono fuse con una fiamma che raggiunge i 1000 °C, amalgamando bene la massa con “puntelli” metallici. Il fuso così ottenuto viene posto su una pietra refrattaria e pressato fino a dargli la forma voluta, rettangolare, triangolare, ecc., per poi essere nuovamente posto alla fiamma e tirato fino allo spessore voluto. Le teche possono raggiungere anche i 3 m di lunghezza, con diametro da 5 mm a meno di 1 mm. Non richiedono ricottura